L’apparizione con Vincent Lindon intervista al regista

INTERVISTA CON XAVIER GIANNOLI

Come è nato questo film? 

Da molto tempo provavo il desiderio di capire che rapporto ho oggi con la religione e la fede. Penso che sia un quesito che percorre numerosi miei film, a cominciare da À L’ORIGINE che trattava del tema delle promesse e delle menzogne, di un’autostrada che non portava da nessuna parte e alla quale tutti volevano credere. Sentivo il bisogno di riposizionarmi nella parte più personale di queste tematiche e un giorno ho letto su un giornale un articolo sulle misteriose «indagini canoniche». Sapevo che in alcune circostanze la Chiesa riunisce delle commissioni d’inchiesta su fatti che si presuppongono sovrannaturali, come le guarigioni miracolose o le apparizioni. Queste commissioni di inchiesta canoniche non sono necessariamente costituite da religiosi. Possono farne parte dei medici o degli storici ai quali un vescovo chiede di raccogliere testimonianze e di indagare su fatti precisi allo scopo di riuscire a stabilire se si tratti di un’impostura… o meno. La prospettiva di un’approfondita indagine documentaria su una presunta prova dell’esistenza di Dio corrispondeva al mio stato d’animo in quel periodo sella mia vita, al dubbio esistenziale che era diventato il mio.

Questo dubbio si è trasformato in una forza di vita e di cinema.

Ha sentito l’esigenza di indagare… 

E volevo farlo senza dogmatismi o pregiudizi, dal punto di vista di un uomo normale, non di un filosofo o di un teologo, che peraltro non sono, ma di un cineasta animato dal desiderio di esplorare una verità umana. È così che mi è venuta l’idea del personaggio del giornalista che parte per investigare su un fatto di per sé incredibile: un’apparizione della Vergine Maria, ai giorni nostri, in Francia. Non è né un bigotto, né un ateo cinico, è solo un uomo libero che vorrebbe districare il vero dal falso. E mi è molto piaciuto rendermi conto che l’inchiesta mi sfuggiva di mano e prendeva una forma autonoma, si muoveva in altre direzioni.

L’epoca in cui viviamo ha contribuito a suscitare il suo interesse verso questo argomento?

Provavo l’esigenza di riappropriarmi di queste tematiche allontanandomi dai cliché delle rappresentazioni mediatiche, dei dibattiti sullo scontro tra le civiltà, sul ritorno della religiosità, sulla deriva fondamentalista e integralista o ancora della Chiesa e suoi scandali, dal momento che per me si trattava soprattutto di una ricerca personale e segreta… Ciascuno affronta questi temi come vuole, come può, oppure rimane come me in uno stato di turbamento. Non riusciremo mai a rispondere al quesito sul senso della nostra vita attraverso algoritmi, smart phone, promesse economiche o illusioni politiche.

Ho voluto che il viaggio del mio personaggio si concludesse nel deserto, un deserto delle origini, nell’indigenza e nella modestia. Ha cercato di penetrare un mistero e alla fine sembra rifiutare di andare fino in fondo, forse perché ha scoperto la bellezza della messa in discussione. Il modo in cui Vincent appoggia un ginocchio per terra per deporre la piccola icona bruciata sui gradini del monastero, come un tempo vi si depositavano i neonati abbandonati, è senza dubbio uno dei gesti più belli che io abbia mai filmato in vita mia. In quel momento Vincent ha un’umiltà e una dignità che mi toccano, come se riconoscesse l’esistenza di un grande mistero pur restando sulla soglia di esso.

Dunque è stata soprattutto una storia umana ad interessarle…

Ho letto un libro affascinante che si intitola «Faussaires de Dieu» (lett. “Falsari di Dio”, di Joachim Bouflet, pubblicato da Presses de la Renaissance), un’inchiesta su quegli impostori che sono pronti a tutto pur di far credere che hanno visto un segno della presenza di Dio. Per questo motivo, quando ho deciso di avventurarmi in questo tema, non l’ho assolutamente fatto spinto dal desiderio di indurre la gente a credere che queste apparizioni siano vere, anzi è vero l’esatto contrario… Ma volevo anche credere alla profonda sincerità di quella giovane donna, malgrado il legittimo dubbio che si può avere sulla veridicità di quello che racconta di aver visto. Trovo questo dono di sé commovente e poetico e nutro un rispetto profondo per questa scelta. Lo storico Yves Chiron ha scritto dei libri su questo argomento che mi hanno molto aiutato.

Durante la scrittura, ho anche avuto modo di parlare con dei sacerdoti. Un giorno ho chiesto a uno di loro: «Quando arriverà il momento della sua morte, avrà meno paura visto che crede nella vita eterna?». È rimasto qualche istante in silenzio e poi mi ha risposto: «Nel momento di chiudere gli occhi, innanzitutto dirò a me sesso ‘Spero di non essermi sbagliato…’». Quella sua frase mi ha sconvolto. E a quel punto mi sono ricordato del bellissimo «Non lo so.» che conclude «Il regno» di Emmanuel Carrère, poiché anch’io posso dire: non lo so.

È per questo che continuo a cercare e ho bisogno del cinema per farlo… o forse ho bisogno di questo argomento per cercare qualcosa del cinema. Non lo so.

Come è cominciata questa indagine?

Innanzitutto, ho trovato un elenco di episodi di apparizioni «autenticati» dal Vaticano. Tutti conoscono Bernadette Soubirou, ma ci sono decine di altre persone, prima e dopo di lei. L’ultima apparizione riconosciuta canonicamente come sovrannaturale risale agli anni ’80 in Argentina, a San Nicolas. E potremmo anche citare San Sebastián de Garabandal, Medjugorje o Fatima che sono state oggetto di numerose inchieste contraddittorie più o meno serie, con un ampio ventaglio di giudizi e di posizioni… Ho trovato la fotografia di una piccola veggente con una cuffia da encefalogramma sulla testa e le mani giunte in preghiera mentre le analizzavano le onde elettriche del cervello per valutare la sua sincerità. C’era una strana poesia in quell’immagine, come se la tecnologia fosse in grado di sondare i misteri dell’anima. Mi ha attirato soprattutto la dimensione fattuale dell’inchiesta.

È riuscito a penetrare il mondo delle inchieste canoniche?

Ho voluto iniziare con un’indagine «sul campo». Sono quindi andato a incontrare alcune persone che hanno preso parte a delle inchieste canoniche. La mia prima sorpresa è stata incontrare uomini e donne che non avevano nulla degli illuminati disposti a credere a tutto e a niente. Al contrario, smascherano le imposture e i falsari, coinvolgendo medici e storici nelle loro ricerche. Ma il problema è che sono tenuti a osservare rigidamente il segreto professionale… Tuttavia, sono riuscito a tessere dei legami con alcuni di loro e ho persino potuto accedere a dei veri interrogatori di «visionari» che sostenevano di avere avuto un’apparizione. È stato molto affascinante perché è una prassi estremamente semplice e concreta, non molto dissimile da un’inchiesta giornalistica o poliziesca.

Una volta conclusa l’indagine, la commissione rimette le proprie conclusioni a un vescovo che è il solo a poter chiedere al Vaticano il riconoscimento di un evento sovrannaturale. Si tratta di un procedimento lungo e rigoroso, molto sorvegliato, con un complesso protocollo che determina la rettitudine delle investigazioni per bandire ogni tentativo di impostura. E non dobbiamo immaginare che la Chiesa auspichi e «incoraggi» l’autenticazione delle apparizioni. Al contrario, credo che rappresentino una complicazione… La fede non ha bisogno di prove o non è più fede.

Nella narrazione e nella regia del film si percepisce un’esigenza di realismo e di rigore…

Perché io riesca a scrivere un film, devo cominciare dicendo a me stesso «Nessuno ci crederà…» Ed è questo dubbio fondamentale che mi porta a condurre delle indagini sempre più lunghe e a utilizzare tutte le risorse cinematografiche per dotare il racconto di una «realtà». Durante le riprese, pensavo spesso agli scettici… e speravo che il rigore della mia inchiesta li avrebbe persuasi a seguire il mio personaggio e a smarrirsi insieme a lui. Continuavo a tornare all’inchiesta, l’inchiesta basata sulla realtà… che finisce con lo sfociare in un’altra dimensione.

Prima di iniziare le riprese, ho parlato con il mio direttore della fotografia Eric Gautier e gli ho detto che dovevamo cominciare filmando le apparenze della realtà per cercare di raggiungere uno stato di grazia: filmare il peso dei corpi per rivelarne l’anima.

È anche la ragione per cui ho avuto bisogno di entrare in contatto con qualcosa del caos del mondo moderno per finire il mio film. Volevo esplorare la parte intima del tema, ma volgendo anche uno sguardo al contesto più ampio. Sono andato a girare nel più grande campo profughi del Medio Oriente, al confine con la Siria. Questa tragedia storica ci spinge a interrogarci sulla nostra identità, i nostri valori, la nostra storia e dunque su quello che siamo disposti a fare per tendere loro una mano. Quando Anna contempla il cielo e si perde, Mériem guarda la terra e trova se stessa. Anche lei crede nel dono di sé a coloro che soffrono, ma in una modalità lontana da quella della Chiesa e del dogma. È il rispetto per la sacralità della vita, al di là di ogni istanza religiosa.

È la prima volta che lavora con Vincent Lindon.

Ho scritto questo ruolo per Vincent Lindon con cui desideravo lavorare da molto tempo. Ci conosciamo bene e avevo voglia di filmarlo in un modo inedito. È stato un duro lavoro fargli accettare che filmassi il suo sguardo o meglio che lasciassi al suo sguardo il tempo necessario per rivelare un’interiorità più segreta. Vincent è costantemente in movimento, a suo agio con le parole e molto veloce nel posizionarsi al centro di un evento. Come tutti i grandi attori, è innanzitutto un corpo, una forza vitale che tocca gli oggetti e interroga la presenza fisica delle persone che ha di fronte e degli ambienti che attraversa. Sapevo che avrebbe messo questa sua forza nel ruolo e io l’avrei filmata dando realtà e concretezza all’inchiesta di Jacques, in un universo che ruota attorno alla spiritualità. Dunque, all’inizio Jacques è un corpo estraneo nel mondo di Anna… e poi incontra uno sguardo.

Alla fine del film, notiamo che lo sguardo di Jacques è cambiato, che ora scorge qualcosa di diverso nel mondo e negli esseri umani. Il giornalista che ha passato la vita a cercare prove tangibili ha incontrato il suo limite. Ha scoperto un mondo in cui le prove non contano e in cui l’invisibile conserverà i suoi segreti.

Cosa ci può raccontare di Anna?

Io credo alla sincerità profonda della sua fede e mi tocca il suo isolamento nella preghiera. Ha sacrificato la vita al messaggio che sostiene di aver ricevuto. È diventata prigioniera di coloro che vogliono diffondere la sua parola e la sua immagine. Il suo incontro con Jacques sconvolgerà il suo silenzio. Questo giornalista arriva come un principe di verità nella sua vita di segreti. Ed è innanzitutto la sua infinita solitudine che mi tocca… Aveva bisogno di essere ascoltata, di essere liberata. Restituendola a se stessa, Jacques la porterà in fondo al suo mistero. C’è un legame complesso tra loro che ha a che vedere con la solitudine e il bisogno di amore, di misticismo e di illusione, di sacrificio e di tenerezza.

Come ha scoperto Galatéa Bellugi che interpreta Anna?

Come per ogni film, ho passato molto tempo a guardare i provini, dal momento che quando trovo gli attori riscrivo la sceneggiatura. Ho visto centinaia di volti… e poi quello di Galatéa, che non conoscevo. Era semplicemente perfetta per il ruolo.

Ho guardato i provini in cui Anna racconta la sua apparizione ed era semplicemente impossibile immaginare che stesse recitando, che stesse mentendo. I suoi sguardi, i suoi gesti, il tono della sua voce, tutto conferiva una realtà sorprendente a quello che è un racconto incredibile. C’era anche qualcosa che rasentava la follia nel modo in cui sembrava serenamente credere a quello che raccontava. Poi mi hanno detto che aveva recitato in qualche film senza sapere veramente se voleva fare l’attrice malgrado la sua straordinaria presenza. Ogni giorno passato con lei sul set è stato un momento di grazia. Ha avuto un rapporto molto interessante con Vincent, come se avessero entrambi capito che avevano tutto da guadagnare nel tenersi a distanza. È al tempo stesso famigliare e impenetrabile, un autentico sogno per un regista. Un vero dono dal cielo.

Ci sono numerosi personaggi secondari…

Il sacerdote che protegge Anna è interpretato da Patrick d’Assumçao, un attore con cui desideravo lavorare da tempo. Ha contribuito con un’umanità straordinaria e dando una complessità al personaggio del protettore di Anna che all’inizio pensiamo essere un manipolatore e che finisce con l’essere vittima della sua stessa fede e del suo amore per lei. Lo stesso vale per Anatole Taubman che interpreta Anton Meyer, quel genere di illuminato pericoloso perché sincero che si vede spesso nei luoghi delle apparizioni. Tutti e due incarnano modi diversi di vivere la sua fede, nel bene e nel male. Tutti e due sono perduti…

Ci sono anche i membri della commissione (Elina Löwensohn, Gérard Dessalles, Claude Lévèque, Bruno Georis), come un gruppo di esperti per i quali il soprannaturale è una routine, con le sue trappole e le sue imposture. Ci siamo molto divertiti a far vivere quei piccoli momenti in cui discutono su questioni concrete mentre stanno indagando su un incredibile mistero. Queste scene danno un sentimento di verità che aiuta la possibilità di un’apparizione ad ancorarsi nella realtà dell’inchiesta.

E per finire c’è l’enigma di Mériem…

Ha utilizzato la musica di Arvö Part durante tutto il film.

Ho scritto il film ascoltando Arvö Part… Per coloro che non lo conoscono è un compositore lituano contemporaneo. È stato il mio ingegnere del suono François Musy, con cui lavoro dal mio primo cortometraggio, a farmelo scoprire. Cosa posso dire di un simile genio? Come spiegavo prima, ho voluto radicare il film nella realtà, nei nostri giorni, nei rumori dei nostri tempi: il rumore delle macchine che soffiano le piume, il rumore degli aerei e delle automobili, le vibrazioni delle luci al neon sui soffitti. Il film non si svolge nel silenzio della chiesa di un piccolo villaggio pastorale, anzi è l’esatto contrario. Quindi la musica di Part interviene come un contrappunto spirituale a quel realismo che non predispone in alcun modo ad accettare la possibilità del sovrannaturale. La sua musica lascia spazio al silenzio, come pure al dubbio, alla profonda umanità e alla poesia del dubbio.

Ma c’è anche un tema di Georges Delerue al quale tengo molto. È molto importante per me che il cinema sia uno spettacolo, lo spettacolo delle nostre vite che si cercano. E questa ricerca mi ha fatto ripensare al tema che sentiamo alla fine del film e che si intitola Stellaire. È una musica che aveva composto negli anni ’80 per una serie televisiva di documentari sull’astrofisica, che mostravano come gli uomini hanno sempre cercato di penetrare i misteri del cielo. Mi ricordo che grandissimi scienziati che avevano dedicato tutta la vita a studiare l’universo finivano col porsi la domanda dell’esistenza di Dio.

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