14 agosto : “Apache” – sinossi e intervista

14 agosto :  “Apache” di Thierry de Peretti (Kitchen Film)

 

sinossi

 

Corsica, estate.

Mentre migliaia di turisti affollano spiagge, campeggi e locali, cinque adolescenti di Porto Vecchio si trascinano senza meta.

In una sera di particolare noia Aziz li porta in una villa dove il padre lavora come custode. I ragazzi passano la notte indisturbati nel lusso della casa e all’alba vanno via rubando degli oggetti senza valore e dei fucili da collezione.

I proprietari, al ritorno da Parigi, si lamentano con un piccolo boss locale di loro conoscenza di aver subito un furto con scasso…

 

 

 

I N T E R V I S T A   A L   R E G I S T A

 

 

 

Qual è il punto di partenza di Apache?

 

Volevo girare un film in Corsica, non solo perché vengo da lì ed è uno dei posti che conosco meglio, ma anche perché, stranamente, è un territorio che non è mai stato filmato, poco rappresentato dal cinema e dalle altre arti, anche se ora le cose iniziano a cambiare. Per me, invece, è un terreno di gioco assolutamente emozionante, una terra senza dubbio adatta alle storie cinematografiche. Dal punto di vista delle sue forme, e anche da un punto di vista politico, penso che quest’isola sia uno dei luoghi in cui oggi si può meglio percepire l’inizio del XXI secolo.

 

La storia di Apache mi è venuta in mente quando ho appreso di questa notizia sconvolgente: tre giovani ne hanno ucciso un altro e lo hanno sepolto nel bosco. Quattro giovani provenienti dalla città balneare di Porto Vecchio e dalle sue periferie, di cui due originari della Corsica, e gli altri due Corsi d’origine marocchina. Volevo dapprima affrontare le questioni che sono centrali oggi in Corsica: quella del rapporto con la violenza e quella dell’omicidio. E poi, per estensione, la questione dell’eredità: cosa si eredita quando si nasce in un luogo particolare, con una storia particolare?

 

 

 

Perché la Corsica è un luogo diverso?

 

Perché porta in sé molte contraddizioni tipiche dell’isola e pone la domanda su com’è vivere oggi lì. Non si tratta della Corsica descritta da Mérimée o Maupassant, dove ci sono storie di vendetta atavica e d’onore, una Corsica che comunque non è mai esistita. Ma vivere lì nel 2013 permette di intravedere come sarà l’isola tra dieci o venti anni? Tutto si muove talmente in fretta, che non lo so. Volevo registrare alcuni di questi cambiamenti, immaginare di poter rivedere il film tra pochi anni e dire ” è incredibile, è stato davvero così?”.

 

 

 

Dove si svolge precisamente la storia del film?

 

Nella piccola città di Porto Vecchio che, come tutto l’estremo sud della Corsica, è in preda alla speculazione immobiliare. Si continua a costruire e ad espandersi: non è certo Shanghai, ma in proporzione ad un’isola come la Corsica, è impressionante ed è comunque anche un luogo in cui la pastorizia non si è completamente persa. C’è una tensione tra un certo “arcaismo” ereditato dal secolo scorso e, per cosi dire, il “contemporaneo”. Un comune come Porto Vecchio può essere visto sia come un grande paese, sia come una periferia un po’ ibrida e anarchica, in cui le attività continuano a espandersi in modo molto dinamico, con delle piccole aree popolari e una costellazione di borghi rurali che si stanno aggregando e si fondono per perdere poco a poco il loro status di paese.

 

Inoltre Porto-Vecchio, che a prima vista sembra un golfo paradisiaco, è in realtà circondata da zone paludose: fino alla fine della seconda guerra mondiale è stata devastata dalla malaria, era quasi inabitabile; oggi è pulita, è diventata un luogo di sogni, una serie di spiagge paradisiache, ma sotto la sabbia, c’è ancora la palude putrida che affiora. Sarebbe a dire che le spiagge idilliache sono in realtà false spiagge! Mi piace molto questa idea. È molto romantica e anche un po’ inquietante.

 

 

 

È una nuova Corsica, un’altra Corsica quella che vediamo nel film?

 

È il regista algerino Tariq Tequia ad utilizzare questa espressione quando parla del suo film “Rome plutôt que vous”. Dice che la sua idea era quella di riprendere Algeri “di spalle”. Questo è quello che volevo fare anch’io: riprendere la Corsica “da dietro”.

 

È vero che la Corsica è spesso vista o rappresentata, nella migliore delle ipotesi, come una grande spiaggia da cartolina con una splendida natura incontaminata, “autentica”… Immagino che sia così un po’ per tutte le isole, come se non volessimo vedere la gente che vive lì, né le cose che vivono. L’idea era quella di provare a pormi in modo da filmare rimanendo dietro o accanto a tutte queste immagini diffuse.

 

 

 

In una scena, uno dei personaggi, un giovane Corso, a proposito del turismo di massa che lo circonda, dice: “brutto, brutto, brutto” …

 

Porto Vecchio è una località balneare: in inverno è completamente deserta e d’estate improvvisamente è invasa da 150.000 persone. Quindi, immediatamente, i giovani che vi abitano, come i personaggi del mio film, si sentono legittimamente derubati dei luoghi in cui vivono e certamente portano uno sguardo pungente e crudele al tempo stesso. Per loro, i turisti sono invasori.

 

Il turismo di massa non produce nient’altro che violenza, invidia, frustrazione. Porta ricchezza, ma solamente ad alcuni. Non vale la pena se si considera il danno provocato, la violenza generata dalla speculazione immobiliare. Che la ricchezza e l’abbondanza provengano dal turismo, è una delle grandi illusioni della Corsica. Nel XVI secolo, la Corsica è stata regolarmente invasa dai pirati turchi. Ecco perché ci sono così tanti villaggi arroccati sull’isola: gli invasori saccheggiarono e massacrarono tutto ciò che trovarono sul litorale e la gente si rifugiò sulle montagne. Il turismo di massa è un po’ così: gli abitanti non possono più permettersi di abitare dove lavorano, quindi vanno a vivere nei villaggi sulle colline e i più fortunati affittano tutto ciò che si può affittare: una camera qui, un garage lì.

 

 

 

Ci sono quindi luoghi, ma anche popolazioni diverse ad abitarla.

 

Volevo anche filmare dei giovani della comunità marocchina. È stata una delle sfide di questo progetto. Anche se non è il tema del film, due dei personaggi ne fanno parte e sono anche molto più isolani rispetto agli altri due, prima ancora di essere francesi forse. La comunità marocchina è quella che ha sofferto di più in Corsica, tanto per le condizioni di lavoro che gli uomini trovarono arrivando sull’isola tra la fine degli anni ’60 a la metà degli anni ’70, quanto per il sentimento di rifiuto di cui sono stati oggetto. Tuttavia, i Marocchini hanno contribuito a costruire la Corsica come è al giorno d’oggi: appartengono di diritto all’isola e l’isola appartiene a loro, come a tutti coloro che vivono e lavorano lì. La loro gioventù è certamente una speranza, per me.

 

 

 

Come avete scelto i giovani attori?

 

Facevo costantemente avanti e indietro tra quello che scrivevo con Benjamin Baroche, il mio co-sceneggiatore, e i giovani che incontravo per il casting.

 

Appena ho capito che volevo raccontare questa storia, ho passato del tempo sui luoghi della tragedia, anche se li conoscevo bene. Volevo che si sapesse di più ed è per questo che i casting, o almeno gli incontri con i giovani, hanno avuto inizio presto e sono durati quasi due anni, come una sorta di grande laboratorio.

 

I giovani attori che ho incontrato, soprattutto quelli che alla fine ho scelto, conoscono molto bene quello che è accaduto, ma noi non ne parliamo quasi mai, non ne vale la pena. Non c’era l’intenzione di riprodurre o ricreare il fatto, ma di provare a mettere insieme, tramite il nostro lavoro, la consapevolezza di quello che era successo, nel senso più ampio e spirituale del termine. La cosa più importante è stata di trovare attori capaci di questa coscienza, di questa gravità, e anche capaci di incarnarla con la maggior libertà possibile.

 

 

 

I vostri giovani attori hanno tutti capito il peso della storia che andavano a interpretare?

 

Sì, certamente, ma con una diversa acutezza a seconda di chi erano. Aziz, che interpreta il giovane che verrà ucciso, vive nello stesso quartiere della vera vittima dell’incidente. Ha una coscienza molto acuta del mondo in cui vive. Ha capito molto bene perché non si poteva girare altrove, anche se poteva essere doloroso. È stato uno dei temi del film: la memoria. Così abbiamo cercato di superare questo dramma attraverso il cinema.

 

 

 

Parlaci dei quattro giovani protagonisti della storia

 

C’è François-Joseph che ho subito scelto per motivi cinematografici. È stato incredibile quando l’ho visto. Emanava una sensualità istantanea. Sembrava l’Accattone di Pasolini. Durante il casting, è stato molto aperto e libero nel parlare sia della sua vita sentimentale come dei suoi profondissimi legami con la Corsica. Era disinibito, generoso e senza retorica. C’è Joseph, trovato una notte in una strada a Porto Vecchio. Ha un fascino incredibile, soprattutto un sacco di humor, fantasia e intelligenza. È il più giovane. È molto duro, infantile e maturo al tempo stesso. È davvero un giovane d’oggi radicato nel suo tempo. E poi aveva un rapporto particolare con il suo corpo, il suo modo di muoversi, quasi come un ballerino, che è completamente animale e che mi è piaciuto.

 

Aziz è uno dei primi che ho incontrato. Inizialmente il personaggio doveva essere più giovane e snello, ma Aziz si è imposto per la sua fisicità. Ci ha ricordato Mark Wahlberg in “The Yards” di James Gray. Ha una presenza massiccia, carisma. E inoltre, cosa molto importante, poteva essere confuso con François-Joseph. Si somigliavano fisicamente.

 

Infine, vi è Hamza. Lui era molto dotato e veloce nell’improvvisazione, da subito dolce e affascinante per un personaggio che avrebbe dovuto esprimere il buio terribile in un dato momento nel film. C’era una tensione in lui che poteva rendere credibile il fatto che avrebbe potuto uccidere pur essendo un giovane che non ne aveva l’aria.

 

 

 

Come avete pensato la scena chiave della morte?

 

È stato complicato. Non abbiamo girato intorno alla cosa. Si tratta di un omicidio. È sempre stato chiaro che bisognava filmare questa morte e rappresentarla. Tutte le persone della mia età che sono cresciute in Corsica hanno assistito a un gran numero di atti violenti di questa natura, che capiscono intimamente. Abbiamo spesso, tra noi amici, questa discussione macabra e un po’ disperata sul numero di esecuzioni, sui cadaveri che abbiamo visto fin dall’infanzia, sulle persone conosciute che hanno ucciso… Quindi, la questione di rappresentare l’omicidio come un trauma collettivo, che contamina gli spiriti, la vita, era centrale. In questo caso, l’omicidio, l’imitazione di esecuzione, non è un omicidio comune, ma l’espressione di un impulso, qualcosa di molto profondo, quasi sfuggente.

 

 

 

È una pulsione organizzata perché quest’omicidio è premeditato. Non è paradossale?

 

È stato uno dei problemi. C’era il fatto che è una storia vera, punto di partenza del film. Ma c’era ancora la questione per noi di ciò che avremmo mostrato senza dare un giudizio su questa storia. Quest’atto è allo stesso tempo del tutto premeditato, poiché c’è un fucile carico in macchina e una futura vittima che è condotta lontana, come farebbero degli assassini esperti e, allo stesso tempo… c’è qualcosa che ci sfugge.

 

 

 

Cosa sfugge esattamente?

 

L’atto in sé. Questo omicidio sembra inimmaginabile. Si tratta, come ho sempre pensato, sia   molto veloce che molto lento, anti spettacolare. Sembra un’eternità, eppure tutto avviene molto rapidamente. C’è una vera stranezza. Qualcosa di allucinante, ma è successo davvero. Per i miei personaggi, è più facile uccidere uno di loro piuttosto che ammettere un piccolo furto. Come se fossimo in un luogo dove l’impunità è tale che si dice, “possiamo farlo” …

 

 

 

Quali sono state le line guida della regia?

 

Abbiamo sviluppato con Helen Louvart, la direttrice della fotografia, dei principi semplici, quasi rudimentali, ma i più precisi possibili: pochissima luce artificiale, poche lunghezze focali diverse, e il più possibile piani-sequenza. Volevamo anche poter girare velocemnte, cosa che è successa quando qualcosa ha cominciato a nascere con gli attori. Naturalmente, questo crea una qualche tensione, ma implica una grande concentrazione per tutti. Ed è stato un bene per il film. Avevo voglia di sentire la durezza, che il film fosse il più fisico possibile e che ci fosse l’impressione di “puro presente”. Fisico, ma soprattutto non nervoso. Volevo che potesse succedere qualsiasi cosa da un momento all’altro, ma che comunque lo spettatore potesse vedere come gli attori si muovono, si osservano, come le cose si muovono tra di loro. Era importante che la messa in scena fosse sufficientemente precisa e quasi un po’ artificiale, per cui entra in tensione con la libertà e un certo grado di realismo del gioco.

 

 

 

Da dove viene il titolo “Apaches”?

 

Si tratta di un titolo che evoca immediatamente la nozione di territorio. Pensiamo sempre ai western, e allo stesso tempo è un po’ burlesque. Si riferisce anche al modo in cui il capo della polizia, chiamava i fuori legge a Bellville Parigi, i cattivi ragazzi.

 

 

 

Rivedendolo oggi, che cosa le ha insegnato questo film?

 

Oggi sono sorpreso di vedere che il film è più nero di quanto l’avessi immaginato. E ho anche imparato che il ‘fuori campo’ nel cinema è potente e che quello che non si vede è molto importante.

 

 

 

Il prossimo film?

 

I personaggi principali saranno femmine!!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

T H I E R R Y   D E   P E R E T T I

 

 

 

Attore, regista, Thierry de Peretti è nato ad Ajaccio.

 

Si è formato nella classe libera dei Cours Florent. Laureatosi a La Villa Médicis Hors-les-murs ottiene il Premio rivelazione teatrale dell’anno dal Sindacato Nazionale della critica nel 2001 per la sua regia Le Retour au désert de Bernard-Marie Koltès.

 

Ha recitato come attore nel film “Le Silence” di Orso Miret, “L’Eté indien” di Alain Raoust e “Ceux qui m’aiment prendront le train” di Patrice Chereau.

 

Apache è il suo primo lungometraggio.