30 Gennaio “Dallas Buyers Club” – curiosità

30 Gennaio  “Dallas Buyers Club”   di Jean-Marc Vallée con  Matthew McConaughey, Jennifer Garner, Jared Leto

 

Sinossi

 

In un periodo incerto nella storia americana, un uomo con i suoi difetti lotta per la sopravvivenza. Ispirato a fatti realmente accaduti, Dallas Buyers Club racconta la storia sulla tenacia di Ron Woodroof attraverso lo sguardo del regista Jean-Marc Vallée, su una sceneggiatura originale di Craig Borten e Melisa Wallack. Il vincitore dello Spirit Award, Matthew McConaughey veste i panni di un personaggio reale, che per il proprio interesse è spinto a qualcosa di molto più elevato. Figlio del Texas, Ron Woodroof è un elettricista e un cowboy da rodeo. Nel 1985, vive un’esistenza secondo le proprie regole, indipendente. Ma come un fulmine a ciel sereno, scopre di essere sieropositivo con una prognosi che lo condanna a 30 giorni di vita. Ron rifiuta di accettare questa sentenza di morte e, di fatto, reagisce. Ricerche rapide sulla sua grave condizione lo portano a scoprire una serie di medicinali e terapie non ancora approvate dal ministero. Decide così di oltrepassare il confine. In Messico impara le procedure per alcuni trattamenti alternativi che comincia a esportare di contrabbando, andando contro la comunità scientifica e i medici specializzati, compresa la sua terapista, la dottoressa Eve Saks (la vincitrice dello Screen Actors Guild Award, Jennifer Garner) preoccupata del suo caso. Completamente al di fuori della cerchia omosessuale, Ron trova un improbabile alleato in un paziente malato di AIDS, Rayon (l’attore premiato con il Gotham Independent Film Award, Jared Leto), giovane transessuale che condivide con Ron un attaccamento spassionato alla vita. Ma anche uno spirito imprenditoriale: per evitare sanzioni governative dovute alla vendita non autorizzata di farmaci e articoli sanitari, fondano un “buyers club” (un ufficio acquisti), per cui i sieropositivi pagano quote mensili adeguate per avere accesso alle forniture di nuova acquisizione. Nel cuore del Texas, l’iniziativa del collettivo clandestino ideata da Ron prende il via, presto aumentano i clienti e i sostenitori. Ron si batte per la dignità, l’informazione e l’accettazione. Negli anni successivi alla diagnosi, il vessato Cavaliere Solitario vive a pieno la vita come non mai.

 

Note sulla produzione

 

Made in Dallas

Ron Woodroof morì a seguito delle complicazioni dovute all’AIDS nel settembre 1992. Erano passati sette anni da quando lo avevano dato per spacciato, con soli 30 giorni ancora da vivere. Un mese prima che morisse, lo sceneggiatore Craig Borten guidò da Los Angeles fino a Dallas, nello stato del Texas perché voleva andare a conoscerlo e raccontare poi la sua storia in un film. Ci sono voluti 20 anni per realizzare, infine, Dallas Buyers Club. Borten aveva appreso la storia del Dallas Buyers Club da un amico e ne era rimasto affascinato. Ron scoprì di aver contratto l’HIV nel 1985, quando in America la crescente consapevolezza dell’AIDS era all’apice. Da oltre quattro anni la sindrome stava falcidiando la comunità gay, e quell’elettricista macho e donnaiolo era una delle milioni di persone che consideravano l’AIDS la “malattia dei gay”. A 35 anni, l’orgoglioso figlio del Texas si ritrovò allontanato ed emarginato da amici e colleghi. Stava morendo ed era praticamente al verde, ma determinato a sopravvivere. E contro ogni previsione, non solo continuò a vivere, ma ebbe la forza per aiutare e salvare altre vite. Nei sette anni che seguirono alla diagnosi, Ron si era trasformato in un’enciclopedia vivente di trattamenti antivirali, sperimentazioni farmacologiche, brevetti, sentenze giuridiche e norme della FDA. Lottava per i diritti dei pazienti, compreso il diritto di accesso a farmaci e trattamenti alternativi. Dopo tante lettere rimaste senza risposta, Borten telefonò agli uffici del Dallas Buyers Club. Ron, proprio lui, rispose e si rese disponibile a incontrarlo il giorno dopo. Borten sentiva che la storia di un cowboy omofobo che incredibilmente si ritrova all’improvviso in prima linea contro la pandemia dell’AIDS fosse unica e d’impatto. «Più andavo avanti e più mi sembrava convincente», riflette lo sceneggiatore. «Quello che più mi interessava era quest’uomo che inizia con un atteggiamento estremamente intollerante e finisce per trovarsi con i suoi più cari amici che gli voltano le spalle, poi si emancipa e impara cos’è l’amicizia vera, cosa significa. Quelli che lo accettano e lo sostengono sono i pazienti sieropositivi e i malati di AIDS, e sono quasi tutti gay». «Ecco una persona condannata a morte che rovescia la sua sentenza e fa delle scoperte. In questo percorso, cambia dentro di sé e aiuta altre persone. Chiunque smentisca ogni aspettativa attira la mia attenzione, ed è quello che ha fatto Ron. È diventato una persona migliore per questo». Borten ha trascorso diversi giorni con Ron al Dallas Buyers Club, riportando a casa oltre 20 ore di interviste su un registratore vocale Dictaphone. Dopo che Ron è venuto a mancare, il racconto della sua storia – sull’interesse e sulla difesa personali che finiscono per portare beneficio a tanti altri – ha intrapreso il suo viaggio inaspettato. Borten ha continuato a fare ricerche ulteriori e a scrivere. Quindi, una volta sicuro di aver reso a dovere la storia di Ron, ha fatto leggere il copione a una sua cara amica, la produttrice Robbie Brenner. «Me ne sono innamorata subito», dice la Brenner. «Che viaggio incredibile quello di Ron! La storia è profondamente umana, a tutti i livelli. Ron ha trovato la volontà di mettersi in discussione, di lottare contro le avversità, la tragedia, e la motivazione sta anche nella terra dove era nato e in come era cresciuto, insomma nella persona che era. Contrarre l’AIDS lo ha reso capace di vedere la sua vita da una diversa prospettiva. Ha cambiato la sua esistenza e quella delle persone che ha aiutato. Ma non era sua intenzione, stava solo tentando di sopravvivere». «Lo script mi ha fatto pensare a uno di quei film a sfondo sociale che io amo. Così ho detto a Craig che volevo produrlo»

 

 

Era il 1997, e la Brenner lavorava come Production Executive presso uno studio che sviluppò il progetto ma non lo realizzò mai. Così Borten si riprese i diritti, presentò il copione in giro, lo fece opzionare e lo riscrisse, aggiungendo nuovo materiale basato sulle sue ulteriori ricerche. Nel 2000 ha iniziato a collaborare con la sceneggiatrice Melisa Wallack per la rilavorazione dello script. Insieme hanno reso più dinamica la storia, sfoltendo le informazioni e le testimonianze raccolte, per cogliere più da vicino l’odissea individuale. Borten ricorda: «Abbiamo suddiviso la storia per ogni singola persona, rappresentando i punti di vista differenti». Osserva la Wallack: «L’evoluzione di Ron era davvero sorprendente. Sono stati il suo intuito e le scoperte su di sé, come sull’AIDS e sulla farmacologia, a portare il copione nella direzione che alla fine ha preso». Nel 1985 l’AZT (azidotimidina) era l’unico farmaco antivirale a dare speranze nel trattamento dell’HIV e dell’AIDS. Eppure non era disponibile su larga scala: era usato solo con i pazienti che partecipavano alle sperimentazioni cliniche, o venduto sotto banco nel mercato nero in rapida ascesa. Poi, nel 1987, fu commercializzato come il più costoso farmaco mai venduto, oltre 10.000 dollari per una fornitura di un anno. I pazienti morivano ogni giorno. Le infezioni da HIV e le morti dovute all’AIDS crescevano in modo esponenziale anno dopo anno. Nel frattempo gli attivisti e i malati di AIDS come Ron spingevano per trattamenti alternativi e a un prezzo abbordabile, sollecitando l’approvazione più rapida da parte della FDA di decine di farmaci potenzialmente utili che non erano disponibili negli Stati Uniti. «Ron si misurò con la FDA, e al contempo con la DEA, l’FBI e l’IRS», si meraviglia la Wallack. «Era un uomo che combatteva le istituzioni per il diritto di controllare quello che avveniva all’interno del proprio corpo. Portò la FDA di fronte alla Corte Federale di San Francisco, accusandola di aver violato il nono emendamento della costituzione, sul diritto alla sanità mentale. Più andavamo avanti con le ricerche e più eravamo colpiti da domande più ampie inerenti alle libertà personali e costituzionali».

 

Arriva il momento di Ron Dopo che Craig Borten e Melisa Wallack ebbero scritto una nuova bozza della sceneggiatura, uno degli studios iniziò la fase di sviluppo di Dallas Buyers Club, durata quasi dieci anni. Ancora una volta, però, il film non fu realizzato. Quando nel 2009 i diritti tornarono agli sceneggiatori secondo la clausola di successione della Writers Guild of America, i due cercarono nuovamente Robbie Brenner. Sebbene il copione avesse incontrato parecchi sostenitori, nessun altro era rimasto infervorato o convinto tanto quanto la Brenner. «Ogni qualvolta il progetto si fosse interrotto, Robbie avrebbe detto: “Io questo film riuscirò a farlo realizzare”», rammenta Borten. La Wallack sottolinea: «Sentivamo che il momento era arrivato, avevamo dato il nostro consenso di presentare il copione a possibili acquirenti». La Brenner inviò la sceneggiatura a Matthew McConaughey, chiedendogli se fosse interessato a interpretare un texano come lui. «Mi sono chiesta: “Chi è Ron Woodroof?”, e per me era Matthew», dice la Brenner. «Come Ron, viene da Dallas, è bello e ha quella strana luce negli occhi. Matthew ha anche la stessa energia e intelligenza di Ron, mescolate al carisma da cowboy e allo spirito da combattente. Altroché, se era perfetto per quel ruolo!». Borten aggiunge: «Ron era davvero carismatico, divertente e persuasivo, un ottimo venditore. Anche se ti prendeva in giro, volevi che continuasse, tanto era affascinante. Matthew possiede molte di queste qualità».

 

Quando lesse la sceneggiatura di Dallas Buyers Club per la prima volta, McConaughey si trovò di fronte a «una grande storia che sanguinava dalle pagine. Era incredibilmente umana, ma senza sentimentalismi. Non ho mai letto un copione che affronta la questione da questo punto di vista». «Ron era un americano purosangue. Ha agitato le acque, ha fatto rumore. Dissi: “Questo film voglio vederlo realizzato, voglio che la storia di Ron sia raccontata”». Era quello che la Brenner voleva sentirsi dire. Determinata a portare il film dallo sviluppo alla produzione, chiese a Rachel Winter, altra appassionata sostenitrice del progetto, di collaborare come produttrice, la Brenner avrebbe continuato a lavorare su Dallas Buyers Club nonostante, nel frattempo, avesse ottenuto un nuovo lavoro a tempo pieno presso un’azienda cinematografica. La Winter non se lo fece ripetere: «Mi sentivo onorata; avevo bisogno di dare il mio contributo per raccontare questa storia», afferma Winter. «Mi toccava da vicino: mio padre e io avevamo affrontato la morte di mio zio per colpa dell’AIDS». E prosegue riflettendo: «Ero elettrizzata perché adoro le storie vere, e questa era la tipica storia di Davide e Golia, di una persona che lotta per una giusta causa. Mi ricordava film come Erin Brockovich, Milk e Schindler’s List, tutti film che mostrano la potenza dello spirito umano. Guardi la storia e conosci i fatti, ma l’impatto drammatico sta nel viaggio della singola persona. Questi film sono rimasti nel mio cuore, e sento che hanno parecchio in comune con Dallas Buyers Club». «Leggendo la storia di Ron mi sono chiesta che cosa avrei fatto io nella sua situazione. Di che pasta sono fatta? Mi sarei arresa alla morte? Mi sarei affiliata a una comunità a me completamente sconosciuta? Questi sono tutti elementi di una grande storia». Le due produttrici erano alla ricerca di uno spirito creativo in grado di condividere le loro emozioni, e la Brenner sentiva che contattare il pluripremiato regista canadese Jean-Marc Vallée potesse valere la pena. La Brenner riteneva che Vallée avrebbe portato «sullo schermo il suo contributo di interpretazione e di poesia. Avevo visto i suoi primi due film e pensavo: “Un regista che è in grado di fare un film fuori dagli schemi come C.R.A.Z.Y. e poi un classico film storico e romantico come The Young Victoria, beh, è davvero sorprendente”». «Lo stile che Jean-Marc usa per raccontare una storia attraverso le immagini è molto forte, quindi sapevo che era in grado di realizzare il nostro film concentrandosi sia sull’aspetto visivo sia sull’azione». Aggiunge la Winter: «La sua regia potenzia la ricchezza del personaggio e le emozioni in modo viscerale». Vallée stava lavorando a un altro film, Café de Flore, ma quando apprese la storia di Woodroof fu sopraffatto: «Rimasi a bocca aperta», dice il regista. «Sono attratto dalle storie focalizzate sul personaggio, e questa era emozionante, mi sentivo ispirato. Mi sono innamorato subito del copione. Malgrado tutti i difetti di Ron, ero in pena per lui e penso che anche il pubblico lo sarà». McConaughey afferma: «Non volevamo fare un “film con un messaggio” o un documentario sull’AIDS. Questo è un film drammatico sulla vita di un singolo uomo». «Non è né un docu-drama né una biografia.», conferma Vallée. A metà del 2012 la fase di pre-produzione stava per iniziare. Vallée chiese ai responsabili delle maestranze e agli attori di vedere il premiato documentario How to Survive a Plague. Osserva il regista: «Si tratta di un grande film, e per noi costituiva un riferimento utile perché raccontava gli esordi dei gruppi di sostegno per l’AIDS, che ebbero un’importanza fondamentale». Tra i gruppi più rilevanti c’erano ACT UP, Project Inform, AIDS Action Council e People With Aids (PWA) Coalitions.

 

Per i ruoli da affiancare a McConaughey, Vallée e i produttori erano alla ricerca di attori che sapessero difendersi, dal momento che i loro personaggi avrebbero avuto vivaci botta e risposta con Ron. «Stava diventando uno di quei film in cui una grande sceneggiatura può funzionare altrettanto bene sullo schermo solo con il giusto cast», dice la Brenner. «Il limite era stato segnato dalla trasformazione di Matthew in Ron». «Sono stata io a suggerire a Jean-Marc il nome di Jared Leto per il personaggio di Rayon. Continuavo a pensare a Jared, sentivo che quel personaggio aveva la sua voce». L’istinto della Brenner era corretto, infatti Leto cominciò per prima cosa a lavorare «alla voce di Rayon, per settimane». Nella storia del cinema, attori come Peter Sellers dovevano creare e perfezionare la voce dei loro personaggi prima che il resto dell’interpretazione potesse prendere corpo. E in effetti, Vallée afferma di non aver «mai conosciuto Jared Leto. Ho incontrato Rayon, ma non conosco Leto. Jared non mi ha mai mostrato il vero Jared. Durante il nostro primo incontro era Rayon e ha tentato di sedurmi. Era completamente dentro il personaggio, ed era anche vestito come lui». Da quasi cinque anni, Leto lavorava come autore, regista, musicista e cantante, e non sembrava interessato a tornare a recitare, ma come spiega lui stesso, «fu il convergere di una serie di elementi: il ruolo, il copione, il regista, Matthew nella parte di Ron, era impossibile rifiutare questo lavoro». «Avevo parecchi impegni in quel periodo, ma come dice sempre un mio amico: “Se ti serve qualcosa, chiedilo alla persona più occupata nella stanza”». Afferma la Brenner: «Eravamo entusiasti all’idea che Jared tornasse a recitare proprio con il nostro film». Aggiunge Leto: «Sapevo che il ruolo avrebbe richiesto il massimo impegno da parte mia, ma mi attirava anche per questo. Non volevo mantenermi a distanza dal personaggio, volevo entrare il più possibile nei suoi panni». «Grazie a questo meraviglioso e bellissimo personaggio che ho avuto il piacere di costruire, di creare, ho avuto l’occasione di conoscere a fondo le persone. È stato davvero gratificante». Dopo che già McConaughey l’aveva informata del progetto, Jennifer Garner, vincitrice del Golden Globe e dello Screen Actor Guild Award, lesse il copione e accettò di interpretare il ruolo della compassionevole immunologa, la Dott.ssa Eve Sacks. A suo avviso, la storia «getta una luce su un periodo oscuro del Paese, possiamo guardare alle nostre spalle e capire quanto siamo andati avanti, osservando però anche quelle persone che ci hanno permesso tutto questo progresso». Dice la Winter: «Quello di Eve è il ruolo più solido nel film; anche Jennifer lo è, e questo viene fuori. Una gran parte del viaggio che compie Eve consiste nel reagire a quello che sta imparando da questi guerrieri nel momento stesso in cui stanno combattendo la loro battaglia. Jennifer apporta al personaggio intelligenza e un naturale calore umano». «Non ci sono falsità in Jennifer», dice la Brenner. «La guardi e sai che Eve vuole fare qualcosa di buono». Anche McConaughey è d’accordo sul fatto che le «innate qualità e la grazia» della Garner sono perfette per il ruolo. «Eve vuole che il mio personaggio faccia la cosa giusta. Lui capisce che lei è una brava persona, il tipo di donna per la quale un uomo dovrebbe lottare. Non che lei abbia bisogno di protezione, è più un “So che non è lei cha ha torto, quindi sei tu a sbagliare”. L’interpretazione di Jennifer permette di cogliere il carattere premuroso di Eve, e soprattutto il suo cuore». «Jennifer è straordinariamente empatica, ed Eve è sempre affettuosa con Rayon», osserva Leto. L’attrice, nata in Texas e cresciuta in West Virginia, ha pensato che il suo personaggio si trovasse in bilico tra due universi: «Eve ha a che fare con il cowboy Ron e con Rayon, un amico di vecchia data. Ma anche se lei ora fa parte dell’istituzione, vuole fare la cosa giusta per i suoi pazienti. Quando scopre che ci sono altri modi di pensare e di affrontare le cure per l’AIDS, comincia a sfidare il sistema. La dottoressa si trasforma più in una guaritrice». Scegliere il cast e reperire i fondi erano sfide che però sono state ampiamente superate e, finalmente, nel novembre 2012 poteva iniziare la fase della produzione. «Era una storia bella e importante che andava raccontata. Siamo grati di averne fatto parte e ci sentiamo dei privilegiati per questo», afferma Vallée. «Dallas Buyers Club è una storia intima, ma che supera la vita stessa. La storia di Ron Woodroof arriva dritta al cuore»

 

Nel cuore dei personaggi

 

Sin dalla loro prima riunione a New York per discutere sulla realizzazione di Dallas Buyers Club, Matthew McConaughey e Jean-Marc Vallée sono entrati in sintonia: l’attore texano e il regista di Montréal erano entrambi determinati a lasciare la storia di Ron così com’era, per mostrare come l’uomo aveva vissuto quelle esperienze. McConaughey afferma: «Come attore, la prima cosa che cerco di fare è di mettermi in secondo piano rispetto al testo. La sceneggiatura di Craig Borten e di Melisa Wallack forniva sul personaggio tutte le informazioni da prendere alla lettera, ma anche gli elementi per capire quello che Ron non era». «Jean-Marc e io sentivamo di avere tra le mani una storia pazzesca, puro rock’n’roll, con tanto cuore e tanto humor, e nella quale si instauravano alcuni bizzarri rapporti interpersonali, di fronte ai quali non dovevamo tirarci indietro. Pensavamo: “Più il film sarà umano, più funzionerà”». Dice Vallée: «In ogni film spero di catturare la realtà, di essere sincero, e cerco di rendere sullo schermo momenti veri e autentici. Assieme agli attori, esploro il contenuto emotivo di ciascuna scena e tento di creare il ritmo giusto per il lavoro. In questo progetto dovevamo costruire delle vere e proprie montagne russe delle emozioni». McConaughey ha apprezzato l’approccio collaborativo e la «mente fervida» di Vallée. «Quando faccio un film, la parte che mi piace di più è la sua architettura, il suo sviluppo», dice l’attore. «Non appena abbiamo iniziato a parlare, ho capito che Jean-Marc ha una grande capacità di ascolto. Non credo che mi abbia mai interrotto, neanche una volta, e io posso parlare parecchio a lungo!». «Avevamo lo stesso modo di vedere e di percepire ciò che sarebbe stato meglio e più adatto al film. All’inizio, quando dovevamo prendere le decisioni, ci siamo ritrovati a fare le stesse scelte indipendentemente l’uno dall’altro». Vallée è rimasto impressionato dalla dedizione di McConaughey. «È un professionista e un gran lavoratore», si meraviglia il regista. «È un allievo eccellente che fa tutti i compiti. Raramente ho visto un attore lavorare e prepararsi come ha fatto lui. Le sue copie dello script erano piene di annotazioni. Metteva continuamente in discussione la narrazione e il suo personaggio per assicurarsi che tutto funzionasse. Matthew è nato e cresciuto alla periferia di Dallas, quindi sapeva bene da dove veniva Ron Woodroof e conosceva l’ambiente socio-culturale che lo aveva forgiato». L’attore riconosce che il suo personaggio è «un bastardo irascibile con un senso dell’umorismo perfido. È un tipo che si odia facilmente, ma che non puoi evitare di amare. Quando una persona resta resta fedele ai propri principi e ti rendi conto, “Cavolo, è proprio fatto così”, finisci per volergli bene».

 

«Il modo in cui ho impostato l’interpretazione del personaggio è stato quello di tenere sempre presente che Ron era innanzitutto un uomo d’affari, uno che stava facendo tutto quanto era necessario per sopravvivere. Più avanti, è diventato un sostenitore della causa, ma quasi senza neanche saperlo. Ha salvato tantissime persone e, che lo abbia fatto per tutti noi o solo per se stesso, comunque l’ha fatto». La produttrice Rachel Winter osserva come McConaughey sia stato onesto con Ron. Ricorda: «Ha lavorato duramente con noi, con Craig Borten e Melisa Wallack, per intrecciare la personalità di Ron, la sua voce, sviscerando la sceneggiatura. Ron era un chiacchierone senza scrupoli, e soprattutto un combattente. Matthew si è sincerato che tutte queste qualità venissero alla luce nei dialoghi, nel modo in cui Ron parlava, ed è una costante della sua interpretazione». Si meraviglia Vallée: «Avendo studiato le registrazioni originali e i diari e le citazioni di Ron, Matthew è riuscito a essere autentico. Durante la lavorazione del film, lui si è trasformato in qualcun altro». Afferma Jennifer Garner: «Ho grande stima per Matthew, e non soltanto per come si è impegnato a livello fisico; ci vuole disciplina, sì, ma anche un intenso bisogno di verità. Matthew ha esplorato il personaggio dentro e fuori, lo ha smontato e lo ha ricostruito. E giorno dopo giorno, si è aperto alle emozioni». Per preparare il suo ruolo da immunologa specializzata nella cura dell’AIDS, l’attrice si è documentata e ha parlato con diversi medici, ma dice di aver «imparato molto di più da Matthew sull’epoca storica, sui farmaci e sui loro effetti, che da chiunque altro». Suggerisce la Winter: «Matthew era puntato come un laser sull’entusiasmo di raccontare questa storia; la perdita di peso a cui si è sottoposto e le ricerche che ha fatto dimostrano la sua dedizione verso Dallas Buyers Club». «Credo che il pubblico si dimenticherà che sta guardando Matthew McConaughey, e vedrà soltanto Ron Woodroof». La produttrice Robbie Brenner è d’accordo: «Si è trasformato in Ron. Quando ho visto le prove del trucco e dell’acconciatura mi sono venuti i brividi». Tra tutte le ricerche compiute, i diari di Ron sono stati quelli che hanno aiutato di più McConaughey a comprendere come un elettricista e cavalcatore da rodeo avesse trovato la forza e la costanza di diventare un competente e un fedele sostenitore del movimento sull’AIDS: Ron teneva un diario da quando aveva cominciato a lavorare saltuariamente. «Appuntava tutto nel dettaglio», riferisce l’attore. «“Mercoledì ho fatto 12 dollari di benzina, devo ancora 3 dollari a Rosa, al posto tal dei tali”. Parlava del lavoro di quella settimana; alla fine scoprivi che non aveva lavorato tanto quanto sperava, ma era comunque ottimista. Si alzava tutte le mattine alle 6, come chi lavora a tempo pieno. Ogni giorno era pronto per andare al lavoro, poi si sedeva e aspettava. Il cercapersone non lo ripagava, il telefono non squillava, ma lui era pronto». «Poi, due pagine di scarabocchi, e me lo immagino a casa, sballato, a sognare una vita migliore». L’attore prosegue nel racconto: «Ho scoperto che era indaffarato nella relazione con una donna o con le sue invenzioni. Era creativo, aveva idee realizzabili; la famiglia e gli amici gli dicevano: “Dovresti brevettarle”. Ma una volta completato il progetto lo abbandonava, mai fatto un brevetto, avrebbe potuto ma non lo fece mai. Cominciava una cosa ma non la portava a termine». «Poi, quando si ammalò di AIDS, vide finalmente qualcosa di finito: la sopravvivenza». Per interpretare il ruolo di questo uomo in fin di vita, debole ed emaciato, McConaughey si è sottoposto a una metamorfosi fisica totale. Ricorda: «Jean-Marc e io ne avevamo parlato sin dall’inizio. Era in apprensione: “Come farai a perdere tutti quei chili?”, e io gli dissi: “Non ti preoccupare, è il mio lavoro”». Il dimagrimento è avvenuto nei quattro mesi precedenti l’inizio delle riprese. McConaughey immaginava che per perdere peso sarebbe stato necessario «il 50% di dieta e il 50% di esercizio fisico. Per fortuna, ci sono riuscito con il 98% di dieta – praticamente a stecchetto, con tutti i pasti controllati – e il 2% di esercizio». Questo regime alimentare estremo ha consentito a McConaughey di perdere tono e massa muscolare, spingendosi sempre oltre gli obiettivi prefissati. «La parte più difficile è stata raggiungere questi vari livelli», rivela. «Quando ho raggiunto gli 80 chili sono passato a 77. Poi si era detto che dovevo arrivare a 75 chili, ma una volta lì sono passato a 72 e così via. Una sorta di condizionamento. Avevo sempre fame e dovevo continuamente smorzare il desiderio di mangiare; in queste situazioni, scopri quanto del tuo tempo è occupato dal cibo. Ho masticato tantissimo ghiaccio». Sotto il controllo costante dei medici, McConaughey alla fine ha perso quasi 22 chili per interpretare Ron: nella maggior parte delle scene pesa circa 63 chili, mentre in una scena cruciale girata in ospedale ne pesa appena 60. «È stata un’esperienza grandiosa, sia dal punto di vista spirituale che mentale, ed è stata istruttiva non soltanto per il ruolo, anche per me stesso. Leggevo di più, scrivevo di più. La mia mente era più lucida. Dormivo meno, tre ore di meno a notte, ogni notte. Ho imparato molto su quello che significa fare delle scelte e avere rispetto per ciò che dai per scontato». A riprese concluse, è stato consigliato all’attore di riprendere con cautela la propria forma fisica dopo che il suo corpo si era abituato a ingerire poco o nulla. L’attore rivela: «In realtà, quello era il momento più pericoloso. Non è che puoi uscire e mangiare gelati e cheeseburger. Né il corpo né gli organi sono pronti a riceverli. Una volta finito di girare, ho continuato a mangiare in modo salutare aumentando le quantità di proteine man mano che riprendevo peso, e ho integrato gli esercizi poco alla volta per tornare a regime». «I mesi in cui sono dimagrito sono serviti allo scopo che mi ero prefissato, era il mio impegno nell’interpretare Ron. Ho ottenuto quello che volevo, e anche di più». Come McConaughey, anche Jared Leto sa cosa significa alterare il proprio peso corporeo per interpretare un ruolo. Avendo avuto soltanto tre settimane per prepararsi, ha digiunato per poter rapidamente scendere alle proporzioni scheletriche di Rayon, il cui corpo era vessato non soltanto dall’AIDS ma anche dall’abuso di droghe. Al momento di iniziare le riprese, Leto pesava 52 chili. «Volevo rappresentare il personaggio al meglio», spiega l’attore. Non è la prima volta che Leto modifica il suo corpo per un ruolo, ha già perso peso per diventare un centometrista in Prefontaine, un’altra storia vera, è dimagrito oltre 10 chili per Requiem for a Dream e ha messo su quasi 30 chili per Chapter 27. Si è ripromesso di non replicare mai quest’ultimo caso, spiegando che «ingrassare è terribile, è molto peggio che dimagrire. Quello che fai al tuo corpo è un’operazione molto più deleteria, soprattutto perché quello che mangi non è propriamente salutare». Per contro, Leto era sicuro di quello che stava facendo durante questo suo dimagrimento fulmineo per Dallas Buyers Club. «Nel corso della storia la gente ha digiunato con ottimi risultati, spirituali e mentali, quindi non credo che sia necessariamente una brutta cosa. Certo, dipende sempre da come e per quanto tempo lo fai, e se lo fai con metodo. Non si perde solo grasso ma anche massa muscolare. Ho bevuto tantissima acqua e mangiato quasi nulla». «Era quello che serviva per il ruolo. La trasformazione fisica ti coinvolge in maniera globale, anche dal punto di vista emotivo. Ha effetto sulla voce, sull’atteggiamento, sul modo in cui ti muovi. Alza la posta in gioco. Quando vedi uno come Matthew, che si è dedicato così tanto al personaggio e alla storia, ti ritrovi a lavorare più duramente in tutti gli ambiti per prendere le decisioni più valide. Abbiamo scalato la montagna tutti assieme». Suggerisce McConaughey: «Qualcuno sarebbe stato scoraggiare dal proposito di Jared di restare sempre nel personaggio. Niente di più sbagliato. È stato utilissimo, per lui e per me. Qualunque attore in quel ruolo rischiava di creare una caricatura, mentre Jared ha mantenuto lo spessore di Rayon pur nella sua eccentricità. Jared cercava la “persona umana”, perciò recitare con lui è stato più semplice, e anche più realistico». Osserva la Winter: «Il cuore del film è nel rapporto tra Ron e Rayon. L’alchimia tra Jared e Matthew nella parte di Ron è una reminiscenza di Un Uomo da Marciapiede con un pizzico di Butch Cussidy. Tra i due c’è un’energia che prende vita sullo schermo». La comunità LGBT era ben rappresentata al Dallas Buyers Club, sia nello staff sia nella clientela, compreso un partner in affari. Ma, come afferma la sceneggiatrice Melisa Wallack: «Il Texas degli anni ’80 era indubbiamente uno dei luoghi, dove essere omosessuale o transessuale era più difficile, peggio ancora se malati di AIDS». «In Rayon volevamo creare un personaggio che fosse combattuto tra la voglia di vivere e quella di morire. Ron non ha mai avuto dubbi al riguardo: lui era determinato a vivere». Visto il margine che c’era per l’interpretazione del personaggio, Vallée loda l’istinto di Leto: «Jared si è presentato con qualcosa di assolutamente preciso», dice il regista. «Io vedevo Rayon come una combinazione tra glam rock, un gay sexy e una donna. Ma fino alla fine Jared è rimasto donna». Afferma l’attore: «Sono entrato in contatto col mio lato femminile, si trattava di un attributo forte del personaggio. In termini emozionali, per me era importante comprendere a pieno cosa significava essere una donna transessuale, qual è il suo punto di vista e cosa si aspetta dalla vita». «Rayon è un raggio di luce, senza giochi di parole [in lingua originale, ray sta per raggio, compreso quello di luce, N.d.T]. È una persona che vuole essere amata e che vuole amare, vuole prendersi cura degli altri con umorismo e gentilezza. Sembra elettrizzata. Credo che sia uno spirito di speranza, di gioia e di ottimismo». Garner aggiunge: «Jared e io abbiamo discusso con Jean-Marc a proposito dell’antecedente rapporto tra Eve e Rayon: i due personaggi si conoscono da tempo, molto prima che Ron entrasse nelle loro vite. Rayon è sempre stato quel tipo di persona in grado di portare un po’ di leggerezza alla severa personalità sempre-bei-voti di Eve. Dal canto suo, lei se n’è sempre presa cura, e a maggior ragione adesso». «Rayon chiama la Dott.ssa Sacks “Evie”», chiarisce Leto. «Erano amici ai tempi della scuola, fino a quando Rayon non ha cominciato a sperimentare un sacco di cose e si è ritirato. Si sono ritrovati per caso quando a Rayon era già stato diagnosticato l’AIDS. Evie è l’unica a prendersi cura di lei». Afferma la Garner: «Quella di Jared per questo ruolo, come anche per Matthew, è stata una metamorfosi. Ha rivelato la fragilità di Rayon, pari a quella di una farfalla. Aveva questa debole e bellissima qualità. È stato un onore per me condividere il set con entrambi». La presenza di due attori fisicamente trasformati e totalmente nella parte ha concesso a Vallée la libertà di lasciare che fosse la carica emotiva della narrazione e della performance a guidare l’azione. «Bastava fidarsi di quello che era sulla pagina e puntare la macchina da presa su Jared e Matthew», conferma il regista. Michael O’Neill ricorda che quando è arrivato sul set «all’inizio non ho riconosciuto Matthew e quando ho visto Jared ho pensato, “Bella ragazza”. Stavano vivendo dentro ai loro personaggi». «Ero felice di partecipare al loro percorso, contribuendo con l’interpretazione di un ruolo di opposizione che li portava a mostrare la tenacia dello spirito umano. Ma non volevo che Barkley ne uscisse come un crudele ruolo secondario; Jean-Marc si assicurò che il personaggio non fosse separato dalla sua umanità, il che mi ha aperto un mondo». L’attore è stato in grado di delineare il progresso del suo personaggio, così intrecciato a quello di Ron. Afferma O’Neill: «Ogni volta che si incontrano, Ron è sempre più convinto del suo attivismo, così ogni volta Barkley deve fare un po’ più di pressione su un ragazzo che sta diventando sempre più fragile. Lui vede il dolore in cui riversa quest’uomo, ma deve attenersi ai suoi obblighi professionali». Anche la Dott.ssa Eve Sacks è divisa tra gli obblighi professionali e la compassione personale, e proprio per questo McConaughey ritiene che quello della Garner sia «un ruolo difficile da interpretare. La Dott.ssa Eve cammina sul filo del rasoio. Deve ascoltare, giudicare e quindi decidere cosa fare con le informazioni che le arrivano da tutte le parti, incluso dal suo lavoro». Eve non è soltanto un medico per Ron e Rayon, ma è anche il collegamento a una comunità scientifica/medica in conflitto all’esplodere di una pandemia. «A mio avviso, chiunque si disperava per trovare una cura», sottolinea la Garner. «Penso che la gente stesse facendo del suo meglio per comprendere questa malattia terrificante; non credo ci fossero delle canaglie, ma che si dovesse trovare un bilanciamento tra gli affari e la medicina». Il ripetuto confronto tra Ron e l’immunologa comincia presto. Dice McConaughey: «Ron arriva come un fulmine che vuole squarciare tutto, dicendo “Ho un modo nuovo di procedere”. Eve fa fatica a digerirlo». Conclude la Garner: «L’evoluzione di Ron lo porta a essere qualcosa di più di un paziente per lei; una persona che non può fare a meno di rispettare».

 

 

Una produzione illuminante Realizzare un film con 25 giorni di riprese impone uno sveltimento da parte di tutte le persone coinvolte. Ma il regista di Dallas Buyers Club Jean-Marc Vallée ha considerato questa come anche un’opportunità per ottenere il massimo da ogni minuto di girato in un modo del tutto inatteso: nulla è stato illuminato artificialmente. Solo di recente Vallée ha ridotto l’uso di questo ausilio: durante la produzione di Café de Flore, girato per mezzo di macchine da presa digitale a mano RED, la produzione si è servita dell’illuminazione artificiale soltanto per la metà delle scene, ma non per le altre. Osserva il regista: «Mi si è presentata l’occasione di provare a girare un film intero senza luci artificiali, utilizzando la macchina da presa Alexa che, come la RED, offre un ampio spettro di colori e ombre anche in condizioni naturali più buie». «Sentivo che era l’approccio giusto per questo progetto. Abbiamo dato l’impressione di catturare la realtà. Anche se per contenuto e struttura Dallas Buyers Club non è un documentario, poteva prendere questa sfumatura. Abbiamo girato tutto il film con la camera a mano e con due lenti, una da 35 millimetri e una da 50 millimetri, così potevamo avvicinarci agli attori senza distorcere le immagini. Yves Bélanger [Direttore della Fotografia, N.d.R.] ha regolato ogni sequenza a 400 ISO o 1600 ISO [velocità della pellicola, N.d.R.], ottenendo un diverso equilibrio dei colori». Per lo scenografo John Paino, candidato agli Emmy Awards, una scelta tale si è tradotta nell’uso di lampade di scena e altre luci aggiuntive. Malgrado ciò, Vallée afferma: «Abbiamo lavorato prevalentemente con le luci esistenti. Devo riconoscere che lo staff scenografico di John ha fatto un lavorone, così come il primo assistente operatore Nicolas Marion e la segretaria di edizione Mona Medawar, connazionali miei e di Yves. Grazie a loro, ho potuto girare un film senza impostare le inquadrature, eppure mantenendo tutto sotto controllo!». Bélanger rivela: «Avevamo la nostra troupe principale, ma questo era pur sempre il mio primo film americano. Al contempo, Jean-Marc e io ci conoscevamo da vent’anni e avevamo già lavorato assieme, ma questo era il nostro primo lungometraggio». «Yves è un’enciclopedia del cinema», afferma entusiasticamente Vallée. «E poi ha un modo di sentire le inquadrature e la luce che fa capire a tutti noi come procedere dal punto di vista creativo». Il direttore della fotografia nota: «Jean-Marc e io avevamo coniato questo stile che utilizza le sole luci disponibili e gioca sui loro effetti, quando collaboravamo alla realizzazione di pubblicità. Quindi per Dallas Buyers Club siamo partiti dalla stessa base e siamo andati oltre rinunciando anche all’uso di treppiede e dolly». Riflette la produttrice Rachel Winter: «Quando Robbie Brenner e io abbiamo saputo che in questo film Jean-Marc intendeva usare solo luci di scena, la nostra prima reazione è stata: “Cosa?”. Beh, è fantastico, arricchisce la narrazione, e in più detta un ritmo diverso. Jean-Marc alla regia e Yves dietro all’obiettivo ci hanno permesso di ottenere qualcosa di veramente speciale». Il regista ci contava di poter realizzare il film con questo stile innovativo grazie alla solidità del cast, della troupe e del resto della squadra. Robin Mathews e la sua squadra di truccatori, Adruitha Lee e la sua unità di parrucchieri, i costumisti Kurt & Bart e i loro reparti hanno lavorato tutti congiuntamente. Oltre allo studio del documentario How to Survive a Plague, si è consultato di tutto, dalle fotografie ai volantini dei club, passando per la documentazione relativa ai sit-in degli attivisti. Anche la rivista gay The Dallas Voice si è rivelata una risorsa particolarmente utile. Afferma Jared Leto: «È stato enorme il lavoro della troupe – costumi, trucco e acconciature. Sono stati loro a permetterci di dare vita ai personaggi». Rivelano i costumisti: «Ci piaceva il ritratto di Rayon che risultava dallo script, una personalità modellata su influenze diverse. Mentre lavoravamo sul modo in cui Jared l’avrebbe interpretata, continuavamo a pensare alle persone del nostro passato, che come Rayon erano transgender. Alcuni dei nostri amici sono stati ritratti dalla fotografa statunitense Nan Goldin, e con Jared ci siamo ispirati ai suoi lavori». «Dal momento che il personaggio aveva molto gusto ma un budget limitato, siamo andati a cercare il suo guardaroba in posti vintage. Collaboravamo quotidianamente con Jared, perché immaginavamo che Rayon avrebbe trovato qualcosa qui e là. Alla fine ogni indumento le stava una favola». Rivela la Winter: «Punto di riferimento chiave per il look di Rayon era Marc Bolan, star glam rock degli anni ’70. La soluzione che Kurt & Bart hanno trovato con Jared era magnifica; le donne sul set dicevano: “Non starmi vicino, Rayon, mi fai sfigurare”». Kurt & Bart si sono dedicati anche ad accentuare le variazioni di peso dei personaggi, lavorando sulle taglie dei vestiti. Come loro stessi spiegano: «All’inizio della storia, quando Ron è terribilmente malato senza conoscerne il motivo, abbiamo fatto indossare a Matthew abiti più grandi, compresa la cintura. Sembra che i vestiti non gli vadano più bene. Avevamo selezionato parecchi abiti chiave per il personaggio, anche più in là nella storia quando Ron non solo resta vivo, ma riacquista persino qualche chilo». In questo lavoro per accentuare le fasi in cui i personaggi erano più in salute o stavano male, la Mathews nota che «coordinare questi cambi di look con Adruitha e con Kurt & Bart è stata una sfida. La gente penserà: “Beh, il film è stato girato in due diversi momenti in cui Matthew si è dimagrito e si è ingrassato”, perché è questo il modo in cui vengono realizzati altri film. Ma non è questo il caso». Prima che iniziassero le riprese, Kurt & Bart hanno visitato il «Lesbian, Gay, Bisexual & Transgender Community Center a New York e la New York Public Library, che conservano archivi incredibili sul look del periodo, incluse tutte quelle spille con le scritte politiche che la gente indossava». Essendo cresciuti a Denver e in Colorado, i costumisti apprezzano «enormemente il West e i cowboy che ancora oggi vivono da quelle parti. Dal punto di vista dell’abbigliamento maschile, vanno ancora i classici: i jeans da cowboy non sono cambiati molto negli ultimi anni. Per Ron abbiamo scelto camicie semi-aderenti a lunga coda con maniche lunghe e bottoni a clip. Anche se la storia è ambientata dagli anni ’80 in poi, Ron ha probabilmente comprato i suoi vestiti nei mercatini dell’usato, quindi alcune delle camicie indossate da Matthew sono degli anni ’70, con il colletto più ampio». «Quando fa un po’ di soldi, ci siamo anche divertiti a vestire Ron con camicie anni ’80, un cappello nuovo e degli stivali in pelle di serpente. Era l’epoca di Dallas e di Urban Cowboy, e da quel momento il Texas stava subendo il fascino della cultura pop, per cui abbiamo dovuto lavorare parecchio dal punto di vista visivo. Anche la mostra fotografica “In the American West” di Richard Avedon ci è stata utile per entrare nel mondo di Ron». Il reparto dei costumi ha rovistato nei mercati dell’usato alla ricerca, tra gli altri, di abiti in poliestere, grosse fibbie per cinture, jeans a vita alta e spalline, tipici degli anni ’80. Jennifer Garner riflette: «Era strano indossare quei jeans così alti in vita. È buffo quanto gli abiti possano farti tornare indietro nel tempo: interpretando Eve, mi sono ritrovata a indossare il tipo di vestiti che portava mia madre». «Sul set, ho trovato una copia del Time che era stata portata per una scena e mi sono ricordata di averla già letta, la mia famiglia comprava sempre il Time. Gli oggetti di scena, così come i vestiti e le acconciature, ti portano indietro nel tempo e ti collocano proprio in quel momento». Ci si poteva aspettare che data l’ambientazione anni ’80, e Vallée che ha fatto dell’accompagnamento musicale una componente fondamentale dei suoi film, questa fosse l’occasione per una collezione delle migliori canzoni d’epoca. Invece, per Dallas Buyers Club, non è stata composto alcun accompagnamento musicale, c’è solo qualche canzone di sottofondo o proveniente dalla scena. Il dramma di Ron segue un ritmo proprio. Vista l’agilità richiesta dallo stile delle riprese e la brevità dei tempi a disposizione, gli interni e gli esterni delle location dovevano essere preparati per lasciare al regista e agli attori la libertà di muoversi praticamente ovunque; quando era il momento di girare, tutto – persone, luoghi e oggetti – doveva essere pronto e poteva accadere qualsiasi cosa. I set in interni erano “caldi” e completamente arredati, a differenza della messa in scena tradizionale, in cui, dopo aver stabilito un’inquadratura o elaborato un master, la macchina da presa si posiziona in un angolo specifico e le luci, l’attrezzatura e la troupe aspettano dietro o al di là di quello che la macchina riprende. In assenza dei consueti confini fisici segnati dai carrelli dell’attrezzatura e dalle luci e i macchinisti, le persone che potevano stare sul set di Dallas Buyers Club erano meno: chiunque non fosse coinvolto in prima persona nella scena che si stava girando rimaneva fuori, dietro l’angolo o nella stanza accanto. Vallée ricorda: «Spesso nella stanza non c’era nessun altro all’infuori di me, dell’operatore, del fonico e degli attori. Mi sono affidato completamente alle emozioni nella pagina e agli attori che erano di fronte alla macchina da presa». Avendo risparmiato il tempo solitamente speso per allestire le luci e ridotto al minimo i cambi di abito e di trucco, per ciascun membro della troupe e reparto la preparazione, il ritmo e le dinamiche lavorative erano completamente stravolte. Più che su un tradizionale set cinematografico, sembrava di stare a una messa in scena teatrale, con gli attori che si muovevano nella scenografia di un palco. Ma a differenza delle poche ore che una perfomance teatrale richiede, la troupe di Dallas Buyers Club ha mantenuto un ritmo di 12-18 ore al giorno. «Era una corsa continua», commentano Kurt & Bart. «Non c’era tregua tra una scena e l’altra, e molte cose andavano fatte in contemporanea: occuparsi della scena corrente, approntare la successiva e preparare quelle dopo. Ogni giorno sono state girate pagine e pagine di dialoghi, scene su scene. Ce ne sarebbero voluti 40 di giorni, non 25». Nel complesso, gli attori e la troupe hanno trovato il modo di mantenere questo ritmo sostenuto. Come ricorda McConaughey, «Gli unici giorni in cui si perdeva più tempo era quando lavoravamo sia Jared sia io: tutti e due avevamo un trucco pesante e dovevamo condividere Robin [Mathews; N.d.R.]». «A un tratto sentivamo, “Pronti a girare in cinque minuti” proprio a metà di un make up particolarmente elaborato. Andavamo avanti e indietro, dalla malattia a quando erano in salute. Ma è stata un’esperienza fantastica», aggiunge la Mathews. Rivela la Garner: «È stato il primo progetto nel quale ho girato scene senza illuminazione. Devo ammettere che mi è piaciuto molto. Stavamo sempre in campana, pronti a girare anche sei, sette, otto scene al giorno. È stata un’esperienza incredibile che ci ha regalato tanto tempo per poter recitare sul serio. Non era una fregatura, non perdevi mai lo slancio, sempre in movimento, sempre attenti. Eravamo carichi finché non ci sedevamo tra una ripresa e l’altra, l’intera squadra unita, è stato grandioso!» Vallée ha cercato ispirazione seguendo il cammino battuto negli anni ’60 e ’70 da un cineasta indipendente. Spiega lo stesso regista: «Speravo di ottenere qualcosa che fosse in linea con i film realizzati da John Cassavetes, che raccontano momenti di reale intimità. Cassavetes è andato praticamente ovunque con il suo cameramen seguendo gli attori, lo vediamo con i nostri occhi. E se qualcosa andava fuori fuoco sarebbe intervenuto il montaggio». Il montaggio di Dallas Buyers Club è stato realizzato dal regista insieme con Martin Pensa. A proposito di questa loro seconda collaborazione dopo il montaggio di Café de Flore, Pensa afferma: «Sento di essere davvero fortunato a considerarmi uno stretto collaboratore di Jean-Marc. Lui è una persona che prova a forzare i propri limiti e puntualmente supera se stesso, imparo così tanto lavorando insieme a lui. Sono molto orgoglioso del nostro risultato in questo film». Avendo scelto di ricevere l’imbeccata da Cassavetes sullo stile registico, Vallée ha incoraggiato gli attori a esprimersi spontaneamente, in totale libertà come difficilmente si vede nelle classiche scene allestite, inquadrate e coreografate. Ricorda: «Si approfondisce l’intimità con gli attori, e sentivamo anche di poter prendere quella direzione o un’altra con la macchina da presa, di avere a disposizione 360° per l’inquadratura, che è davvero come trovarsi lì in quel momento». La Garner apprezza «la sensibilità di Jean-Marc, il suo modo di allestire un ambiente affinché le cose accadano al volo. Qualcuno aveva un’idea e giravamo in una certa direzione, poi però subentrava qualcos’altro e tornava sui suoi passi per riprenderlo». «Non fermava la macchina da presa, correva in un’altra stanza e diceva, “Dall’inizio per favore, torna dentro [la stanza; N.d.R.]”, così», aggiunge McConaughey. Leto ride entusiasta: «Spero che ogni attore possa fare un’esperienza come questa, con la macchina da presa sempre accesa come fosse viva e tu lì che non sei pienamente cosciente». «È proprio come piace a me», afferma McConaughey. «Impari a memoria la tua linea di sceneggiatura mentre la macchina da presa continua ad andare. Compariva ogni giorno e ci mettevamo a lavoro. Ti dovevi saper comportare più che recitare. Penso si possa definire un nuovo modo di fare cinema». «Le 13-14 ore al giorno di riprese? È stata una fatica che però ho apprezzato, per tutto il tempo hai la sensazione che stai costruendo qualcosa insieme agli altri». Michael O’Neill aggiunge: «Ci sentivamo come dei fuorilegge, che si devono muovere e muovere rapidi. Non c’era nessuno che aspettava fuori nella propria roulotte. Eravamo tutti lì ed è stato divertente. Jean-Marc saettava da una parte all’altra della ricostruzione di un’aula giudiziaria con la camera a spalla, parlando francese entusiasta». Nonostante il passo spedito, nulla sfuggiva dell’inquadratura all’occhio del regista. McConaughey ricorda: «Sono rimasto impressionato dalla capacità che aveva Jean-Marc di allestire una sequenza pensando a quello che era giusto per i personaggi e per gli attori. È molto sicuro di sé, ma allo stesso tempo per niente egocentrico rispetto a chi avesse l’idea migliore, diceva “Non era quello che avevo in mente, ma ora che ti ascolto, ho capito e mi piace!”». Aggiunge la Garner: «È diretto, ma anche gentile. Credo che una combinazione così sia un punto di forza per un regista». Regista anche lui, Leto sente che l’approccio di Vallée «alle riprese possiede un’alta conducibilità e ottiene delle buone interpretazioni dalle persone perché è fluido. È un regista per attori». «A tratti, Jean-Marc può essere un maniaco del controllo, com’è giusto che sia quando dirigi un film. Ma è comunque aperto, gli piace mantenere l’atmosfera vivace e sperimentale, così ognuno ha l’opportunità di collaborare e di essere creativo». Conclude poi l’attore: «Sa bene quello che vuole, e quando non è così, lotta finché non lo ottiene». Come lo stesso Ron Woodroof ha imparato, sapere ciò che vuoi è il primo passo per ottenerlo. Sapeva che voleva vivere e ci è riuscito fino a un punto che non aveva mai immaginato. Nel 1992 lo sceneggiatore Craig Borten gli chiese come si sentiva all’idea che la sua storia sarebbe stata un film un giorno. Borten riferisce che «Ron disse: “Cavolo, sarei davvero contento di avere un film. Mi piacerebbe che la gente avesse queste informazioni, e mi piacerebbe che le persone sappiano quello che io ho imparato, navigando a vista, sul governo, le case farmaceutiche e l’AIDS. Mi piace pensare che tutto questo abbia avuto un senso alla fine”».

Un pensiero su “30 Gennaio “Dallas Buyers Club” – curiosità

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