GLI SFIORATI TUTTE LE CURIOSITA’ – NOTE DI REGIA

 

GLI SFIORATI
un film di  MATTEO ROVERE
con  ANDREA BOSCA, MIRIAM GIOVANELLI,  CLAUDIO SANTAMARIA, MICHELE RIONDINO, ASIA ARGENTO,  MASSIMO POPOLIZIO e AITANA SANCHEZ GIJON

una produzione FANDANGO in collaborazione con  RAI CINEMA

IN SALA DAL 2 MARZO 2012

 

TRE UOMINI (ANDREA BOSCA,  CLAUDIO SANTAMARIA E MICHELE RIONDINO), UN MATRIMONIO CHE “INCOMBE” ,UNA SORELLA IN ARRIVO (MIRIAM GIOVANELLI) , UNA P.R. DA “CONQUISTARE” ASIA ARGENTO

Uomini e donne che interagiscono sfiorandosi, quasi confusi, Matteo Rovere li fotografa con attenzione evidenziando la loro sfrontatezza e l’apparente sicurezza in realtà deboli e in balia degli eventi che la vita trascina verso comportamenti e azioni a volte inconsapevoli e incomprensibili.

Una città come Roma che crea l’alibi di poter fuggire da qualcosa e da qualcuno, ma alla fine scontrandosi con i loro limiti cambieranno inevitabilmente….

 

SINOSSI

Un padre in comune: è questa l’unica cosa che unisce Méte e Belinda. Lui giovane ed esperto grafologo, innamorato del carattere di ogni essere umano nascosto dietro la scrittura. Lei adolescente inafferrabile, in bilico tra consapevolezza e scoperta di sé. Non si sono praticamente mai visti, ma se adesso sono costretti a passare sotto lo stesso tetto la settimana che precede il matrimonio dei propri genitori, allora è forse arrivato il tempo di incontrarsi, o di perdersi definitivamente. Sullo sfondo c’è una Roma caotica e inattesa, carica di sensazioni e sorprese, e intorno a loro amici in movimento continuo, e adulti sempre alla ricerca dei propri sogni. È l’energia che gli Sfiorati spargono per la città, eroi di una generazione che ha avuto tutto, senza mai afferrare niente davvero: per sorridere, ridere e riflettere, su una certa confusione dell’oggi.

NOTE DI REGIA

È stato Domenico Procacci a farmi leggere questo romanzo, che prima non conoscevo. Conoscevo diverse opere di Veronesi, ma non Gli Sfiorati. Mi sembrava un libro un po’ misterioso: c’era una specie di aura intorno a quel testo, un amore che evidentemente aveva colpito le persone che negli anni lo avevano incontrato tra le loro letture. E così è stato anche per me, fin da subito.
Il cuore di Méte, lo sguardo di Belinda, i pensieri di Damiano e Bruno, mi sembravano formarsi chiari durante la lettura, e quasi allungarsi oltre le pagine, come se li conoscessi da sempre. E poi c’era Roma, una città misteriosa e imprevedibile, raccontata con lo sguardo lucido di chi viene da fuori, pronto a stupirsi delle pieghe di ogni vicolo, del colore dei mattoni in centro, e della vita delle persone che da sempre la abitano.
Sul set ce l’ho messa tutta per divertirmi e per far divertire: ce l’ho messa tutta per fare un film che fosse emozionante e profondo, ma anche leggero e fruibile. Al centro della storia ho sentito questo amore impossibile, drammatico, e ho pensato a come il romanzo di Veronesi riuscisse a trattare il tutto con grande leggerezza, e al senso profondo che questa scelta, questa leggerezza, in fondo ha.
Sentivo qualcosa che riguardava tutti, e in questo la trasposizione dagli anni ottanta ad oggi è stata quasi una necessità, un riprendere il filo del discorso avviato vent’anni prima, per rendersi conto di quanto sia attuale.
Veronesi parla di Sfiorati, di individui che vivono molto afferrando poco, e magari rendendosi conto solo più tardi di quello che gli è passato accanto, o addosso. Giovani e meno giovani, tutti inquieti ma pronti a vivere, positivi, e alla ricerca di qualcosa. Esattamente come oggi.
Una generazione ferma da anni, schiacciata tra genitori che proteggono ma che nello stesso istante
non lasciano crescere, che aiutano troppo, dando inconsapevolmente poco spazio. E allora ecco i giovanissimi eroi di Veronesi, pronti a reagire magari rincorrendo un’amore impossibile, pronti a vivere fino in fondo, a non dormire, a salire sul treno prima che lasci la stazione, a farsi trovare pronti.
Quel libro mi pare cerchi di raccontare tutti, che abbiano diciassette o sessant’anni. Siamo tutti passati attraverso la “sfioratezza” io credo, a volte andando oltre, altre volte scegliendo di fermarci lì.
Abbiamo iniziato a scrivere, con Laura Paolucci e Francesco Piccolo, cercando di far rinascere questi misteriosi Sfiorati, immaginandoli pronti a muoversi e incontrarsi anche oggi, mescolandoli come in un gioco di specchi, e dando origine a sensazioni profonde ma ironiche, con il cuore divertito e vitale del romanzo pronto a battere ancora. Gli Sfiorati sono una categoria umana e dello spirito, che nel film Méte e Bruno scoprono in modo quasi scientifico, ma che probabilmente è sempre esistita. E forse siamo tutti un po’ Sfiorati, con le persone e con le cose che ci capitano, pronti a riconoscerlo almeno per un istante, o forse addirittura bisognosi di tenere viva questa luce, questa capacità di stupirsi, di renderci imprevedibili anche a noi stessi: esistono secondi, ore, a volte intere giornate, che nella vita contano più di altre. Il film racconta la settimana che, nella vita di Méte, ha contato e conterà più di ogni altra. È così per tutti, come capita a lui: la vita scorre tra un evento e l’altro, e ogni tanto qualcosa ci sbatte addosso improvvisa, sconvolgente, lasciandoci senza fiato. Un paio di volte, nella vita, questa cosa rimane. Le altre mille volte invece si affievolisce, lasciando solo qualche debole cicatrice. Tutto scorre troppo rapido e siamo subito pronti ad affrontare un nuovo incontro, una nuova esperienza, altre parole. Eccola, la “sfioratezza”. Invece forse, ce lo dice il romanzo stesso, “Non bisognerebbe dimenticare mai nulla”.

 

I personaggi, gli attori.

Belinda invece rimaneva invulnerabile, perché lei  sapeva trattenersi nel limbo da cui Méte era caduto giù. Detestava la vita, e preferiva di gran lunga farsene tramortire piuttosto che fermarsi un secondo solo a guardarla.

Sandro Veronesi, Gli Sfiorati

Ho avuto la fortuna di lavorare con attori molto diversi tra loro, di grande esperienza o più o meno esordienti, nel tentativo di amalgamare un cast che valorizzasse la storia, ma anche in grado di far vivere ogni personaggio in modo libero ed indipendente, come se tutti i ruoli avessero una vita propria, reale e riconoscibile, anche oltre le scene rappresentate.
Andrea Bosca, interpretando Méte, ha fatto un lavoro splendido, di studio e di immedesimazione, donando un cuore al personaggio, cercando di infondergli sentimenti e personalità vere. Méte è innamorato dell’unica persona sulla terra che non può amare, la sua sorellastra, bellissima e lontana dalla terra stessa, nascosta agli occhi di quel mondo reale dove il ragazzo cerca qualcosa che lo allontani da questa passione, splendida e insieme distruttiva. È il sogno di ogni regista avere un attore che si metta in gioco fino in fondo, senza paura e prendendosi dei rischi, nel tentativo di rappresentare un personaggio che arrivi allo spettatore.
Miriam Giovanelli (Belinda), e con lei la bravissima Aitana Sanchez-Gijon (Virna), hanno interpretato il lato “spagnolo” del cast, la famiglia che Sergio ha formato negli anni di lontananza dal figlio Méte.
Miriam ha saputo dare vita e verità al difficilissimo personaggio di Belinda, ed è stata splendida per la sua capacità di rappresentare (senza mai nominarla direttamente) tutta la “sfioratezza” del film.
È un personaggio moderno, affascinante ma anche enigmatico, forse quello che maggiormente mi aveva conquistato nelle pagine di Veronesi, e che non vedevo l’ora di raccontare per immagini. Non si arrabbia mai, si emoziona per cose illogiche agli occhi degli altri. È un carattere che mi intriga forse al di  là della sua stessa rappresentazione, per quello che mi fa intuire rispetto a una generazione che fa ogni sforzo per prendere il volo, non sempre riuscendoci.
Sergio è il padre di Méte, rimasto per anni lontano dal figlio. È un ex giocatore ed ex dirigente di calcio ora un po’ ai margini, con tutta la “peculiarità” di un personaggio moderno, tragicamente e comicamente verissimo, reso in modo unico da Massimo Popolizio.
Bruno (Claudio Santamaria), non racconta solo l’amicizia con Méte, ma soprattutto la passione per la grafologia come strumento di racconto di un mondo, idea che Veronesi proponeva nel romanzo. Méte si aggrappa a questa disciplina, a questo “niente con basi solide”, e Claudio Santamaria ha saputo dare umanità, tatto e delicatezza a Bruno, il portatore di questo sapere, interpretando un personaggio diverso dal solito, pronto alla riflessione, responsabile, eppure allo stesso tempo unico vero conoscitore di tutto il mondo degli Sfiorati, dal quale resta rapito, ma del quale rimane osservatore cosciente.
Beatrice Plana (Asia Argento) è uno dei caratteri che più mi hanno colpito durante la lettura del romanzo. È una creatura della notte tipica del mondo romano, incontrata mille volte, sempre in tiro e sempre uguale a se stessa. Maschera comica e insieme struggente: una donna sola, costretta però dal gioco dei ruoli a rappresentare sempre il suo opposto.
Damiano (Michele Riondino), è nato invece durante la sceneggiatura. Con la sua rapidità, modernità, lucida follia, mi sembrava potesse raccontare ironicamente una certa contraddittorietà che oggi scivola tra le pieghe dei caratteri “pronti a tutto” per il lavoro, per la seduzione (o meglio: per il rimorchio) o per il denaro. Nello stesso tempo rappresenta però il traghettatore, l’individuo che in una Roma caotica e insieme immobile vende case, anche vecchie di quattrocento anni, ad abitanti sempre parziali, temporanei, che possono vivere quelle case, ma mai possederle veramente. Damiano è una piccola porta silenziosa verso la storia delle case di Roma, che è un po’ la storia di questo film.

 

L’ambientazione: Roma.

Visti dalla strada i profili dei palazzi del centro di Roma non sono mai dritti.

Sandro Veronesi, Gli Sfiorati

La “madre” di questa storia ha una caratteristica precisa e inconfondibile, e porta i tratti di Roma. Quasi che Méte e il suo mondo non sarebbero gli stessi fuori dalle pigrizie e le ritrosie dell’Urbe per eccellenza. Per questo motivo ho lasciato viaggiare liberamente la macchina da presa, sapendo però che non si doveva sottovalutare la debordante personalità di questa grande città: poteva essere il nostro maggior alleato, oppure divorare tutto il resto.
La quasi totalità del racconto si ambienta nel cuore del centro storico: i Fori, il Campidoglio, Piazza Navona, sono tutte facce della stessa scenografia, della stessa città, che appare e scompare dietro lo stressante, forsennato e apprezzabile tentativo di diventare moderna, là dove la città moderna tarda ad arrivare. Contraddittoria e inattendibile, ma anche svogliata, strafottente ma sicura della propria bellezza: ho immaginato una Roma che si mostrasse, proprio come Belinda, Méte, Beatrice.
E forse non è un caso che tutto accada lì, tra quei vicoli gonfi di stratificazioni dove tutto si somma e mai si sottrae. Come se tutti quei livelli influenzassero la vita di chi ci vive, di chi solo ci passa accanto, sfiorando tutto senza coscienza; perché nella addizione tutto è più complicato da leggere. In questo senso per il nostro protagonista fare il grafologo di mestiere non garantisce la cognizione dei mille segnali che la città invia: annunci, tag sui muri, segnali stradali, manifesti incollati su altri manifesti, giornali, menù di ristoranti cinesi, piantine di case, tatuaggi sulla pelle… ma anche passaggi di turisti, di pellegrini, di autobus come veicoli pubblicitari. E l’ingombro costante dei lavori in corso, delle
impalcature, dei secchioni, delle edicole: tutto diventa ostacolo se non c’è comprensione.
E forse la difficoltà di volta in volta mostrata dai nostri “eroi” deriva da quella incapacità, dal rifiuto di capire i luoghi che accolgono il loro quotidiano, dalla loro inconsapevolezza nel vivere passivamente i territori pubblici e privati: buttati in case prestate o vuote, in cerca di case, araldi di case in vendita, soffrono nel non riuscire a segnare il territorio. Non vivono i luoghi, li subiscono. Non li abitano, non li vestono. Sono come vestiti di abiti di altri, ci si muovono male dentro, ma ogni giorno li indossano.
Quello che manca veramente è la capacità di tracciare confini e crearsi spazi propri.
Ma questo perché a Roma la creazione di un confine, di uno spazio proprio, è una corsa verso l’infinito, una battaglia persa. Perché Roma è stata ed è di tutti, e tutti la segnano con il loro passaggio. E allora, evidentemente, se niente è loro, tutto è loro.

La realizzazione, il set.

La luce del film è di Vladan Radovic, le scene sono di Alessandro Vannucci, i costumi di Monica Celeste, il suono di Maricetta Lombardo e il montaggio di Giogiò Franchini: un gruppo di lavoro in parte nuovo e in parte rodato, che ha dato moltissimo al progetto, insieme a numerosi altri collaboratori che sarebbe difficile elencare.
Fotograficamente ho cercato un colore acceso e realistico, per un’immagine a volte estremamente incisa e altre volte più densa di grana, nel tentativo di riprodurre in “versione cinematografica” la percezione che si ha di Roma muovendosi nelle sue vie durante le ore del giorno. In questo senso anche la scenografia ha lavorato di pari passo, cercando più uno sguardo che un ambiente specifico e confidando nella forza della città eterna, di fronte alla cui potenza immaginifica mi sembra spesso meglio rimanere “bassi”, umili e ad altezza uomo, quasi cercando in questo modo di coglierne meglio l’energia.
La musica del film è stata composta da Andrea Farri: abbiamo sperimentato molto, cercando di unire un’anima più classica e orchestrale a suoni e sonorità maggiormente sperimentali ed elettroniche, immaginando di dar voce “all’energia” che circonda gli Sfiorati.

Matteo Rovere

 

MATTEO ROVERE

Matteo Rovere inizia a realizzare corti e documentari in giovanissima età. A 19 anni ottiene il primo riconoscimento, il Premio Kodak per il Miglior Cortometraggio Italiano al Salerno Film Festival Linea d’Ombra.
Nel periodo successivo realizza diversi film brevi, invitati complessivamente ad oltre centoquaranta festival tra Europa e Stati Uniti. Il solo Homo Homini Lupus, interpretato da Filippo Timi, ha vinto più di trenta premi, tra cui il Nastro d’Argento 2007 per il Miglior Cortometraggio.
Ha esordito nel lungometraggio con Un Gioco da Ragazze, prodotto da Colorado Film e Rai Cinema, selezionato in concorso al Festival Internazionale del Film di Roma e uscito nelle sale italiane nel novembre 2008.

 

 

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